lunedì 4 febbraio 2013

I nativi digitali non esistono

Roberto Casati nel suo pezzo dello scorso dicembre ha usato un'espressione più colorita, parlando di balla dei nativi digitali. Sommessamente, dico di essere d'accordo. E lo ripeto: i nativi digitali non esistono. In un altro post specificavo come lo stesso Prensky, l'ormai noto autore dell'articolo che teorizzava la differenza tra nativi e immigrati digitali, ha ritrattato, o meglio specificato, questa sua definizione, introducendo il concetto di saggezza digitale (digital wisdom). Anch'io, un paio di anni fa, mi feci trascinare dall'emozione. Il lavoro sul campo con i docenti mi ha chiarito le idee.

La questione qui è molto semplice. Tutti i bambini e ragazzi nati nell'era di Internet non sono, diciamo così, geneticamente predisposti e non hanno ricevuto una colomba dal Cielo - sotto forma di tweet, magari. Mia figlia maneggia telecomandi, tastiere e cellulari solo perché ne è circondata. Se la mia famiglia vivesse sull'isola di Chiloé, probabilmente sarebbe abilissima con le reti da pesca. E' il contesto il motore delle abilità, non l'innata predisposizione. Non ci sono controprove del fatto che un australopiteco o un neandertaliano, dopo un pò di pratica, non sarebbero stati in grado di far scorrere le foto, con le dita, sul display di uno smartphone touch screen. Non dimentichiamo che si tratta di individui che, dal nulla, hanno creato il fuoco, il bronzo, il ferro, la ruota. I ragazzi post 2000 non sono nativi digitali, come i nostri antenati rinascimentali non erano "nativi di stampa" (grazie a Gutenberg), o quelli della mia generazione "nativi televisivi". Se con queste espressioni si intende inquadrare storicamente alcune delle generazioni umane, allora potrebbero essere assimilate agli "ismi" della storia o critica letteraria. Se invece si vuole categorizzare ambiti cognitivi, si rischia di finire maldestramente fuori strada.

La storia delle tecnologie educative è stata già descritta ampiamente in letteratura e non è questo il luogo deputato a rifare la cronologia. Dai libri di testo / fotocopie, al magnetofono; dalle audiocassette, alle videocassette; dai DVD / Blu-ray Disk, a Internet (intesa nel suo complesso di web tool); dai PC, ai tablet e smartphone, la questione delle tecnologie eucative, come spesso viene detto, ma altrettanto spesso ignorato, è che vanno contestualizzate come strumenti di supporto alla didattica e all'apprendimento e, soprattutto, che non sono buone o cattive (il tablet, piuttosto che le fotocopie) a prescindere, direbbe Totò, magari sull'onda emotiva del momento. I giudizi vanno calibrati in base all'uso che se ne fa, sia dal lato istituzioni (Governo e Regioni, scuole e università, dirigenti scolastici, professori, insegnanti ed educatori), sia dal lato cittadino (famiglie, studenti / alunni / allievi). In questi ultimi anni, soprattutto da parte delle istituzioni, si è fatta molta demagogia spicciola, mentre la ricerca seria è affidata ad alcuni pionieri che tentano di affrontare il tema in maniera scientifica, ma ahimé sono poco ascoltati o letti. Molti altri, invece, in maniera superficiale (o furbesca?), sembrano cavalcare l'onda per meri scopi personali. E' noto, inoltre, che la politica vive di passioni effimere e di impatti immediati per immediate esigenze (ma di questo parlerò diffusamente in un prossimo post) e l'uso delle tecnologie a scuola è diventata, da qualche anno, una bandiera da ammainare o sventolare a seconda dei tempi e degli umori; mentre i nativi digitali, l'ariete per sfondare le eventuali resistenze e giustificare le azioni in campo (parafrasando Gianni Marconato, si potrebbe dire il "cavallo di Troia del neoacheismo tecnologico").

L'ho già scritto (nella tesi di dottorato e in altri post) e lo ripeto spesso a colleghi e amici: non basta riempire le scuole di tecnologie (in questo caso digitali) per poter migliorare l'apprendimento. Nel post precedente, ho citato alcuni articoli in cui questo aspetto appare di tutta evidenza. Decine di tablet in un laboratorio informatico e digitale, LIM o altri strumenti senza un'adeguata teoria e pratica pedagogica alle spalle sono gusci vuoti, effimere passioni cognitive in grado solo di "fare rumore" sul tema: distribuire qualche premio, permettere a qualche giornalista di scrivere articoli o a qualche affarista di pubblicare e vendere libri, gratificare insegnanti e alunni (e dirigenti scolastici) assieme a qualche sindaco e politico locale (o nazionale a seconda della portata dell'evento) e nulla più. Su questo poi cala silenziosa e maligna la nebbia del digital divide, contro cui l'Europa è impegnata, mentre l'Italia nicchia (basta ricordare le difficoltà di molte famiglie nell'iscrizione online di quest'anno). Un popolo di connessi non è sempre un bene per l'establishment. La Basilicata, nello specifico, è un esempio di questo annoso, quanto mai attuale problema. Se si pensa, inoltre, che oggi la politica corre molto sul web, mentre i dati di accesso non sono confortanti, si capisce come una buona fetta di popolazione non riesca a usufruire del diritto democratico alla piena informazione.

La mia richiesta al prossimo Governo è questa: mettiamo insieme le migliori menti italiane nel campo della pedagogia, delle tecnologie educative (digitali e non) e delle singole discipline scolastiche, e riscriviamo i programmi, pubblichiamo vademecum e linee guida, ristrutturiamo la formazione degli insegnanti, mettendo in piedi processi (come dice Gianni Marconato), tenendo bene a mente che formatori ed educatori non adeguatamente stimolati, coinvolti e consapevoli possono incrinare il sistema, essendo loro il perno di tutta la giostra che pone l'allievo (di tutte le età), come cittadino e persona, al centro del mondo. Pensiamo a come realizzare, finalmente, le classi aperte nell'ottica europea del lifelong learning (vessilo delle strategie comunitarie in tema di apprendimento, ma ancora lungi dall'essere pienamente realizzato), anche e soprattutto come arma per combattere l'abbandono scolastico e con un occhio al lavoro. Apprendere è l'unico mestiere che non manda la persona in pensione. Mai. E' una meravigliosa avventura che si dipana ogni giorno, fuori e dentro l'aula, e accompagna ciascuno di noi per tutto il ciclo della vita (dicendola alla Van Gennep, "dalla culla alla bara"). E' questo lo scenario a cui la scuola deve adeguarsi e non alle presunte abilità dei "nativi digitali" o alle mode tecnologiche del momento. Sarebbe un vero cambiamento epocale in termini di approccio alla questione. Questo mi aspetto per il mio paese. Il paese ideale in cui vorrei che mia figlia crescesse.
   

5 commenti:

M. Antonella Perrotta ha detto...

Avevo inserito un commento al tuo articolo, Marco, ma non so perché al momento di pubblicarlo... puff, è sparito! Che rabbia! Ci riproverò stasera...

M. Antonella Perrotta ha detto...

Anch'io sono d'accordo, Marco, su quanto sostiene Roberto Casati: la teoria dei nativi digitali è una balla, o per lo meno un'arbitraria e fantasiosa interpretazione di una realtà così variegata e mutevole da ribellarsi ad ogni generalizzazione.
E lo affermo "apertis verbis", basandomi sulla mia esperienza didattica.
Da una decina d'anni la scuola pubblica italiana, anche se in ritardo rispetto a quella di altri Paesi europei, si è aperta (rassegnata?) alle nuove tecnologie digitali e all'informatica, cercando di recuperare il tempo perduto e distribuendo a pioggia, o a macchia di leopardo, a scuole di vario ordine e grado, LIM, computer ed altri strumenti digitali.
Poi ci si è accorti che le TIC, la LIM e la Rete non servono a scuola se con c'è qualcuno che sappia utilizzarle nella e per la didattica.
E allora sono stati attivati corsi di tutti i tipi e per tutti i gusti e le esigenze: TIC, controTic, LIM, eccetera,
tutto per accogliere degnamente i nuovi alunni, nativi digitali...
Ma dove sono questi nativi digitali???
Quest'anno ho quattro classi iniziali (scuola superiore), e su circa cento alunni solo il 10% ha conoscenze e competenze digitali scolasticamente significative e utili all'apprendimento.
Però le abilità e capacità informatiche di questi dieci alunni non dipendono dalla genetica o dall'anagrafe ma, come dicevi anche tu, dal contesto, dalla famiglia che dà loro la possibilità di possedere e usare PC, Mac, tablet, smartphone, noteboock... utilizzati peraltro per giochi informatici o per tenersi in contatto con gli amici.
Dovrebbe essere poi la scuola a insegnar loro che questi "tools" tecnologici possono anche servire a progettare, ricercare, approfondire, elaborare, creare, studiare...

M. Antonella Perrotta ha detto...

In nome della "par condicio" inserisco il link ad una articolo di Mario Agati dal titolo perentorio:
I nativi digitali esistono. Punto!

http://agatimario.blogspot.it/2013/02/i-nativi-digitali-esistono-punto.html

Che ne pensi, Marco???

M. Antonella Perrotta ha detto...

Perché, non apri questa bella discussione anche nella Scuola che Funziona???

Marco Albanese ha detto...

I tuoi commenti, Antonella, sono sempre puntuali e circostanziati. Rispondo in poche righe. La par condicio è d'obbligo con un tema così complesso. Ho letto l'articolo e sono anche d'accordo su alcune cose che vengono dette. Non c'è dubbio che gli strumenti oggi a disposizione sono tanti oppure che noi giravamo per le biblioteche, mentre oggi i ragazzi sono con il mondo in mano. Un conto però è utilizzare un social per tenersi in contatto con l'amico/a, prendere appuntamenti per una partita di calcetto; un conto è organizzare le proprie attività in funzione di un apprendimento proattivo. Essere multitasking non vuol dire di fatto essere capace di apprendere contemporaneamente da più fonti in maniera efficace. Il contesto storico-culturale è cambiato in pochi anni; la ricerca, gli studi e la pratica ci diranno se è così anche per le modalità di apprendimento. Un conto è collegare informazioni. Un conto è selezionare le informazioni più utili, generando apprendimento. La competenza digitale, poi, è bene ricordarlo, non è una novità. L'Unione europea ce la chiede già dal 2006. Molti se ne sono accorti da poco. Se ritieni una cosa utile, potrò utilizzare questo post per avviare la discussione nella community.

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