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venerdì 23 luglio 2010
Nuovi abitanti antiche questioni
Palinuro (SA). Ore 11:50. Vacanze, mare cristallino, cielo limpido, sole, ottimo cibo, l'amico Conrad sotto l'ombrellone e area wi-fi. E già: ormai tutti, o quasi tutti, i villaggi, campeggi, alberghi, e così via, hanno la loro brava "wi-fi zone" e i clienti, me compreso, sembrano apprezzare molto il servizio. Da qualche anno, tra le innumerevoli cose da portare in vacanza, non mancano uno o addirittura più portatili, cellulari smartphone, IPhone (fra poco IPad) e chi più tecnologia ne ha più ne metta. Avrei voluto prendermi una vacanza dalla stessa (come suggerisce Ernesto, segnalando l'articolo "Take Your Vacation - Please"), ma vuoi per la tesi di Dottorato, vuoi perché nell'area wi-fi del Villaggio ci sono più portatili che tavolini, non ci sono riuscito completamente (con mio grande rammarico). Ieri ho assistito a due scene / situazioni, a mio avviso emblematiche. La prima rappresenta, forse più di libri, articoli, post e quant'altro, l'evoluzione dell'homo sapiens sapiens a homo connecticus. Sedute a un tavolino ho visto una ragazza, di circa quindici anni, che navigava (e chattava) con disinvoltura; al suo fianco la nonna che ricamava all'uncinetto con espressione rilassata. Nessuna delle due, con molta probabilità, aveva la benché minima idea di quello che faceva l'altra, ma davano l'impressione che una serena coesistenza tra i due "mondi" è possibile. Quasi contemporaneamente, due bambini, 9/10 anni uno 5/6 anni l'altro, si sono avvicinati e mi hanno chiesto aiuto per collegare un portatile alla presa della corrente. Da bravo futuro papà mi sono prodigato e poi, ingenuamente, ho chiesto se avevano bisogno di altro per utilizzare il PC (il sole mi aveva dato alla testa). L'ovvia risposta del grande è stata: "no, grazie: so benissimo cosa fare". Consapevole della gaffe, ho girato i tacchi e con la coda dell'occhio ho scorto il piccolo che maneggiava con sicurezza uno smartphone di ultimissima generazione. Nel frattempo, però, mi sono reso conto, con un'intuizione fulminea, che non c'erano i genitori in giro. Risultato: i due bimbi hanno continuato a stare lì per un'oretta buona, finché il piccolo non ha detto di avere fame. Allora, altro aiutino per staccare la presa e via verso la pasta asciutta. Non è una favola di LaFontaine, ma forse gli assomiglia, adattata naturalmente al XXI secolo. Non c'è morale da cercare, c'è solo da fare qualche considerazione. Come scrive Giorgio Jannis sul Blog Nuovi Abitanti, "i bambini sanno cosa fare su internet. Guardano Youtube, hanno i loro siti preferiti per giocare, vanno a cercare informazioni sui cartoni animati preferiti o su Harry Potter o Lady Gaga, conoscono Wikipedia. A partire dalle scuole medie, o anche per quelli di quarta e quinta elementare, il riferimento nei loro discorsi a cose viste in Rete è costante, il web è un Luogo abitato, e tanto quanto a quell'età espandono il loro orizzonte verso il vicinato e i gruppi di amici, così esplorano territori indifferentemente fisici o digitali". Questo significa che diventa imprescindibile un'educazione ai media, prima per genitori e insegnanti, in modo che siano in grado di dare ai propri figli / alunni le giuste coordinate per utilizzare al meglio i nuovi strumenti. L'assenza dei genitori dei due bambini non va vista come un'illuminata lungimiranza tendente all'indipendenza dei pargoli, quanto piuttosto una censurabile negligenza: l'impressione che ho avuto (in stridente contrasto con la scena precedente) è che il portatile e lo smartphone rischiano di sostituire il ruolo che aveva la TV fino a una generazione fa e cioè surrogato della presenza parentale (inoltre qualcuno, emulando Popper, potrebbe poi scrivere un saggio dal titolo "Cattivo maestro computer"). Il rischio principale è soprattutto di sprecare l'enorme chance di far acquisire ai nostri figli / alunni le corrette competenze digitali per (cito ancora Jennis) "renderli Abitanti anche del nuovo mondo immateriale, il web in cui vivono a pieno diritto".
mercoledì 7 luglio 2010
Google for teachers
Mini-post per informare di un bel lavoro di Richard Byrne: Google for teachers II. Si tratta della seconda versione pubblicata. E' una guida rapida e maneggevole, in inglese, che illustra, passo dopo passo, come utilizzare tutte le applicazioni di Google, in ottica educativa e formativa. Materiale molto utile per tutti gli insegnanti che vogliano cimentarsi utilizzando tool gratuiti e intuitivi. Il post va nell'ottica e nella direzione dei 44 gatti di Catpol (cito e condivido appieno): "abilitare all’uso attivo, partecipato o anche solo utile di strumenti e canali a disposizione di tutti, nessuno escluso". Fuori dal piccolo orticello privato e dentro il mondo. Di conseguenza, partire da insegnanti ed educatori potrebbe essere un buon inizio.
domenica 2 maggio 2010
La conoscenza come bene comune
Sto leggendo un interessantissimo libro, il cui titolo è anche quello del post, di Charlotte Hess e Elinor Ostrom (Bruno Mondadori Editore, edizione italiana curata da Paolo Ferri), che raccoglie una serie di contributi sul tema del libero acceso alla conoscenza (è stata anche aperta una pagina dedicata su Facebook). Non ho intenzione di addentrarmi nelle questioni legate al copyright e alle possibilità di un suo ripensamento nell’era digitale (a tal proposito rimando al Blog di Ernesto Belisario per eventuali approfondimenti), ma di affrontare il tema da un punto di vista di opportunità. Le tecnologie e l’avvento del social web hanno trasformato la Rete e, di conseguenza, il modo di fare, produrre, condividere informazioni e conoscenza. L’utente è diventato un “prosumer” (neologismo creato dal futurologo Alvin Toffler nel 1980, formato dalle parole producer e consumer) e, in quanto tale, contribuisce direttamente ad aumentare e potenziare il Web e farlo diventare un immenso database di risorse in continuo aggiornamento. Una delle modalità di distribuzione e accumulo della conoscenza è l’operazione di condivisione dei link, strumento contenuto in tutti i social media oggi disponibili (su Facebook, per esempio, gli utenti ne condividono circa 25 miliardi ogni mese). Di recente ho letto una notizia sul Corriere della Sera relativa alla funzione “Like” (“Mi piace”), che è un modo per accrescere la popolarità di status, notizie, link, ecc. Ebbene, pare che il popolare social network stia puntando molto su questo “tasto” che è anche comparso sui siti web della CNN (“Recommend”) e di Internet Movie Database (“Like”). A breve potrebbe essere utilizzato su quelli di Wikipedia e del New York Times. Il potenziale, in termini commerciali, è evidente, ma credo anche a livello di diffusione di conoscenza, intesa come somma delle manifestazioni umane che comportano un accrescimento del sapere collettivo e, di conseguenza, del bacino di informazioni a cui dare maggiore o minore risalto. Si va, dunque, sempre più verso un mondo in cui sarà essenziale il libero accesso al sapere e il concetto di conoscenza come bene comune avrà un peso specifico decisivo. A questo si lega il fatto che uno degli aspetti più dirompenti di tutti i tool a disposizione dei prosumer è la portabilità, cioè accedere alle risorse proprie ed esterne praticamente da qualunque postazione. Jimmy Wales, fondatore del progetto Wikipedia, intervenuto al "Festival delle Città Impresa 2010", tenutosi a Borgoricco (PD) il 24 aprile 2010, con un talk intitolato “La conoscenza si sviluppa in rete”, ha sottolineato alcuni aspetti importanti sull’evoluzione del mondo nel XXI secolo, dove la gente ha sviluppato una profonda passione per l'informazione e la conoscenza. Nel 1972 Charles van Doren, uno degli editori dell'Enciclopedia Britannica, dichiarò che “l’enciclopedia ideale dovrebbe essere radicale e smettere di essere sicura”; in realtà non è stato così, nel senso che le enciclopedie sono state prodotte sempre con metodi tradizionali e di grande qualità. Wikipedia, invece, nasce da un’idea radicale: “immaginare uno mondo in cui ciascuna persona sul pianeta abbia libero accesso a tutto il sapere umano”. Il termine “free” è inteso come gratuito e libero e, quindi, i contenuti sono accessibili, liberamente modificabili e adattabili. Il progetto si fonda principalmente su due pilastri e cioè collaborazione e condivisione. Quest’ultimo fa anche da motore propulsore per molte iniziative nei paesi in via di sviluppo, basate sulla conoscenza di Wikipedia distribuita a persone che non possono accedere a Internet. A mio avviso, comunque, andrebbero aggiunti altri due pilastri a quelli citati poc’anzi: il volontariato e la neutralità. Wikipedia ha solo 35 dipendenti, ma oltre 100.000 volontari (tra sviluppatori ed editor) che permettono di ridurre i costi, ma anche di “controllare” la veridicità e l’attendibilità dei contenuti proposti, tanto che gli errori riscontrati sono in numero minore rispetto a quelli dell’Encyclopedia Britannica: è il potere dell’intelligenza collettiva. E ancora. Il materiale proposto punta a una forte neutralità dal punto di vista politico: spetta a Wikipedia dare informazioni il più possibile corrette, in modo che la gente abbia gli strumenti adeguati per farsi un’idea e poter decidere da sola.
Nell’introduzione al testo di Hess e Ostrom, scritta a quattro mani dagli stessi curatori del volume, ci sono alcuni concetti da sottolineare e che i personaggi a capo dei nostri sistemi politici ed educativi farebbero bene a tener presente. La conoscenza è cumulativa e ciò “genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti” e, quindi, va considerata come un bene pubblico “dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza” (p. 10-11). Chiudo con la citazione di una frase di David Wiley, presa dal video di un suo intervento, “Openess in Education”, e che è rivolta, principalmente, agli insegnanti: “the most successful educators share most thoroughly with the most students” (gli educatori con maggior successo condividono a fondo con la maggior parte dei propri studenti).
A proposito di diffusione della conoscenza, di seguito embedo un video (via Web 2.0 and Something Else) molto ben fatto sulla storia di Internet e sul passaggio dal time sharing al file sharing. Da far vedere anche in classe.
Nell’introduzione al testo di Hess e Ostrom, scritta a quattro mani dagli stessi curatori del volume, ci sono alcuni concetti da sottolineare e che i personaggi a capo dei nostri sistemi politici ed educativi farebbero bene a tener presente. La conoscenza è cumulativa e ciò “genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti” e, quindi, va considerata come un bene pubblico “dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza” (p. 10-11). Chiudo con la citazione di una frase di David Wiley, presa dal video di un suo intervento, “Openess in Education”, e che è rivolta, principalmente, agli insegnanti: “the most successful educators share most thoroughly with the most students” (gli educatori con maggior successo condividono a fondo con la maggior parte dei propri studenti).
A proposito di diffusione della conoscenza, di seguito embedo un video (via Web 2.0 and Something Else) molto ben fatto sulla storia di Internet e sul passaggio dal time sharing al file sharing. Da far vedere anche in classe.
sabato 9 gennaio 2010
Potenza nella rete
Non c’è da preoccuparsi, non sono rimasto disorientato o tramortito dalle abbuffate natalizie. Il titolo di questo post ha due valenze. La prima si riferisce all’importanza che la città di Potenza o meglio che alcuni suoi abitanti hanno nella rete. Sì, proprio così. Mi riferisco a due personaggi che, per strade diverse, continuano a dare contributi alla rete e sulla rete. Si tratta di Giuseppe Granieri, potentino doc, di cui ho appena finito i libri (in rigoroso ordine di lettura da parte del sottoscritto: La società digitale, Blog generation e Umanità accresciuta), che con uno stile brillante e lineare ci aiuta a capire i mutamenti che le reti stanno apportando al nostro sistema sociale, economico e politico, con fondamentali risvolti su concetti quali la privacy, i diritti d’autore, la conoscenza, l’apprendimento, l’educazione e la democrazia. Lo troverete citato spesso in questo blog. L’altro personaggio, in realtà, non ha bisogno di grosse presentazioni, essendo lei una regina, pardon una Lady Oscar del web, e della cui amicizia mi fregio. Per quei pochi che ancora non la conoscono, sto parlando di Caterina Policaro, lei potentina d’adozione, ma calabrese di nascita. Si tratta di una delle cyberpersone più connesse e in connessione del XXI secolo, con occhi dappertutto e con una grande capacità di scovare e sintetizzare ciò che di più curioso e interessante produce il web. Non a caso numerosissime sono le sue apparizioni praticamente ovunque (“una, nessuna, centomila...” si legge sul suo blog), con puntatine anche nei canali informativi “tradizionali” (il “Corriere della Sera” e il “TG1” su tutti). L’altra valenza, invece, è più metaforica e prende le mosse da due ricerche, i cui risultati ho avuto modo di consultare recentemente, sulla “potenza” che è insita nella rete e nel continuo comporsi e ricomporsi dei rapporti sociali al suo interno. La prima, in ordine di consultazione, è quella condotta, su circa 3000 cittadini americani, dalla Pew Internet & American Life Project, una società no profit e apartitica che fornisce informazioni sulle attitudini e i trend negli Stati Uniti e nel resto del mondo, secondo cui chi frequenta social network, blog o usa il cellulare ha più opportunità di stringere relazioni, ampliare i propri orizzonti e abbattere barriere geografiche e razziali. Un altro dato interessante della ricerca è che chi si serve di Internet, lo fa indifferentemente sia per incoraggiare relazioni con persone che vivono a grande distanza che per mantenere i contatti locali (titolo della ricerca: “Social Isolation and New Technology”, novembre 2009). La seconda è stata condotta da alcuni ricercatori, per conto della società Swg, su un campione di oltre 1300 net surfers, da cui si evince che “molti italiani under 50 evadono l’isolamento storico prodotto dal lavoro contemporaneo e dalla televisione e passano ore della propria giornata in continua comunicazione digitale con i propri amici. Una parte considerevole di questa popolazione online sta inoltre sfruttando i social network per ripensare la propria posizione professionale nella propria città e nel resto d’Italia, dare slancio alla propria passione politica e, in altri casi, trovare nuovi amici e cose da fare nel luogo dove vivono”. Tra i dati interessanti emersi dalla ricerca, vi è sicuramente la reinterpretazione del concetto classico di sito web, poiché i social network sono ormai diventati delle daily application, presenti in modo costante nella vita quotidiana degli utenti (il 50% del campione intervistato ha, infatti, dichiarato di “essere connesso alla rete praticamente sempre o, meglio, appena possibile”). Tra i social network, Facebook non è considerato uno strumento volto soltanto ad allargare la cerchia di amicizie, ma anche a consolidare la sfera di conoscenze attuale e a recuperare “quei contatti persi o dimenticati nel percorso delle vite di ciascuno”. Questo dato fa emergere interessanti analogie con i risultati dell’indagine americana e che necessitano di essere approfondite. Infine, tre sono le parole chiave del nuovo sistema di interazioni sociali online e cioè: “aggiornamento”, “gestione” e “condivisione”, per quest’ultima risulta emblematico come l’85% degli intervistati (giovani in gran parte) abbia dichiarato che “l’uso di Facebook è volto soprattutto all’acquisizione e allo scambio di informazioni” (titolo della ricerca: “I cambiamenti promossi dai social network nelle città italiane”, ottobre 2009).
venerdì 11 dicembre 2009
Internet è una piattaforma?
La mia assenza prolungata da questo blog è stata dovuta a impegni lavorativi e, soprattutto, di dottorato, ma, adesso eccomi qui di nuovo. Di recente ho letto una notizia su Repubblica.it, relativa al nuovo servizio che il colosso “Google” sta per mettere in campo e definito “tempo reale”. Si tratta, a loro detta, di un passo oltre “google news” e dell'applicazione degli accordi con i social network Facebook e Twitter, che permetterà di trovare risultati e informazioni aggiornate in giro per il web (anche nei blog indicizzati con Wordpress e Blogger), restituendole immediatamente all’utente. La notizia ha stimolato una “provocazione” che da tempo mi ronza nel cervello e cioè il concetto di Internet come piattaforma. L'idea è che il web, allo stato attuale, già fornisce a educatori, formatori e utenti in generale tutti gli strumenti necessari per costruire un ambiente innovativo e partecipato per l'apprendimento, non solo ovviamente per le lingue straniere, senza sentire il bisogno di chiudersi entro i confini rigidi che le attuali piattaforme, sia commerciali sia open source, impongono. I ragazzi, cosiddetti “digital natives” o anche “born digital”, si servono di questi tool soprattutto per motivi personali e per socializzare, quindi, per citare Trentin, potrebbe essere utile tentare di “riutilizzare le loro conoscenze e insegnare loro una cultura dell’uso”. Inoltre, forzando la definizione di Varsico su cosa sia un ambiente di apprendimento e cioè un “luogo” in grado di “offrire rappresentazioni multiple della realtà, evidenziare le relazioni e fornire così rappresentazioni che si modellano sulla complessità del reale; focalizzare l’attenzione sulla produzione e non sulla riproduzione”, si potrebbe vedere in essa la conferma del fatto che Internet basta e avanza. Le domande che mi tormentano da un po’ sono due: perché rinchiudersi in altri ambienti quando tutte le funzionalità degli stessi sono offerti dalla rete? E’ possibile considerare il web stesso come un learning space individuale? La risposta non è così immediata anche se, guardando la rete oggi e il suo evolversi rapido e indipendente, si potrebbe essere tentati di considerarla una vera e propria “piattaforma duttile e facilmente raggiungibile che consente la relazione tra persone, la condivisione, la creazione, l’archiviazione di contenuti e, quindi, l’attivazione di ambienti e situazioni di apprendimento” (concetto questo tratto da: Corazza, L., Internet e la società conoscitiva. Cyberdemocrazia e sfide educative, Trento, Erickson, 2008, p. 116; libro che consiglio vivamente). Per questo motivo, mi sono messo a studiare la questione del cosiddetto Personal Learning Environment (PLE) e della sua funzione di ambiente che permette l’integrazione tra la formazione tradizionale, effettuata tramite le piattaforme “convenzionali” (LMS o LCMS), e tutta la variegata offerta web, dai social nettwork, ai blog, ai forum, ecc., che costituisce il patrimonio delle conoscenze informali dell’utente. Ritornerò spesso sulla questione del PLE che, devo confessare, mi intriga moltissimo.
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