domenica 10 febbraio 2013

Il mito del "rutto libero": per un'antropologia della politica

Prendo spunto da un post di qualche tempo fa di Ernesto Belisario e Stefano Epifani, intitolato "I sudditi si lamentano, i cittadini partecipano". Da qui inizio per dire che mi sento cittadino e voglio partecipare. A modo mio, s'intende.

Il titolo del post, che rientra nelle "amenità" di questo blog, non vuole rappresentare un'offesa nei confronti di chi legge. Quindi, sgombro subito il campo. E' una specie di similitudine, diciamo così. Per intenditori. Si tratta di un riferimento al film "Il secondo tragico Fantozzi" del 1976 (quello della mitica sequenza de "La Corazzata Potëmkin", per capirci), in cui il nostro è pronto alla partita Inghilterra - Italia con un programma formidabile: "calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato, rutto libero!". La tragica e inaspettata telefonata di Filini vanifica tutto. Il paragone ardito inzia dalla fine della sequenza: dopo una frittata di cipolle e una birra fredda, il "rutto libero" è una imprescindibile necessità fisiologica, così come la politica lo è per i popoli.

Siamo in piena bagarre elettorale. C'è eccitazione e, a ragion veduta, voglia di stupire l'elettore. I leader sembrano commercianti intenti a lucidare e mettere in bella mostra le mercanzie, anche se si tratta di collezioni di dieci anni addietro. Gli scranni parlamentari sono ambiti, molto ambiti. Le proposte sono continue, tamburellanti. Gli indecisi ondeggiano come banchi di sardine, mentre gli squali aspettano per banchettare. Tutto mi fa pensare ancora a Fantozzi e, in particolare, a uno dei suoi film in cui il protagonista si prepara al voto. La sequenza si conclude, imprevedibilmente, con il rumore dello sciacquone del bagno nel seggio elettorale.

Edward H. Carr nelle sue "Sei lezioni sulla storia" (1961) scrive "Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere il presente unicamente alla luce del passato" e poi che "la storia è un dialogo senza fine tra il presente e il passato". Appunto, la questione, a mio avviso, è che il politico, di professione o no, vive nel presente, non studia il passato, non si preoccupa del futuro. Il politico non concepisce, non conosce, non ama la parola "programmazione". Egli venera un altro lemma, un verbo, "foraggiare". Per esempio, scorrendo le news pubblicate su "Basilicatanet", con al fianco una cartina della regione, anche il contadino del varesotto potrebbe facilmente intuire i feudi elettorali dei politici locali (compresi quelli alloggiati temporaneamente a Roma). Non è uno scoop, ma una constatazione geo-socio-politica che, credo, si ripete un pò dappertutto sul suolo italico.

La politica italiana è uno sport molto ben praticato. E' il secondo dopo il calcio. Ci sono professionisti navigati, dilettanti allo sbaraglio, volponi nelle retrovie, faccendieri perennemente affaccendati. Il personaggio che rispecchia maggiormente l'archetipo del politico peninsulare è Bertoldo che Severgnini così descrive nel suo "La testa degli italiani" (2005): "il contadino che s'atteggiava a difensore dell'esperienza contro l'istruzione, dell'improvvisazione contro la preparazione (...); rappresenta l'orgoglio della furbizia impunita, ed è ancora tra noi. Qualche volta si fa chiamare assessore o diventa direttore di qualcosa; quasi sempre porta la giacca e guida una bella automobile. Cambia regione, lavoro, partito: non cambia abitudini. E' affascinante e tragico, come tante maschere italiane". A me piacerebbe, invece, pensare a un Paese dove i Bertoldo piano piano scompaiono per essere relegati ad archeologia umana. Un paese dove la politica è una cosa maledettamente seria che non lascia spazio all'improvvisazione. Citando Gaber, mi piacerebbe pensare alla politica come "partecipazione", ma non come la intendono quelli che, con malcelata malinconia, affermano "Mi sono messo in politica per aiutare mio figlio" oppure "Sto dietro a un politico chissà esce qualcosa per me", o come la intendono i professionisti del genere quando usano con disinvoltura la cosa pubblica per soddisfare il proprio elettorato, a livello locale e nazionale. Partecipare, a mio modo di vedere, vuol dire confrontare, approfondire, studiare soluzioni adatte a garantire il bene comune.

Obama, nel suo discorso di insediamento, si è rifatto al passato, alle bellissime parole della Dichiarazione di Indipendenza (il passo che amo di più è: "tutti gli uomini sono creati eguali; essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati"). A me basterebbe che il mio Paese, come direbbe Benigni, si aggrappasse, in questo momento, al prodotto più alto del suo intelletto: la Costituzione. Il luogo dove ogni domanda trova la giusta risposta. Art. 2, "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"; Art. 3 "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese"; Art. 4 "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società".

Non sono d'accordo, poi, con quelli che dicono: "Per protesta, non vado a votare". No, è una protesta stupida e puerile. Il voto è una conquista democratica ottenuta con il sudore e con il sangue di centinaia se non di migliaia di persone e per questo va messo in cima alla lista delle cose da fare. Sempre. Votare è esercitare, a pieno titolo, il diritto/dovere a una cittadinanza attiva e partecipata. La politica ideale per il mio paese riparte, banalmente direbbe qualcuno, da istruzione e formazione, lavoro, salute, ricerca, ambiente e cultura (nel senso più ampio del termine). La politica ideale per il mio paese non ha paura del futuro, perché conosce il suo passato e comprende il suo presente. La politica ideale per il mio paese è democratica, partecipata, consapevole ed entusiasta. La politica ideale per il mio paese costruisce l'avvenire sull'economia sociale e sul capitale umano. La politica ideale per il mio paese è fatta da persone che svolgono, secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, attività o funzioni che concorrono al progresso materiale o spirituale della società. La politica ideale per il mio paese dovrebbe ripartire da qui.