domenica 20 marzo 2016

Diario di un apocalittico e integrato in fabula che aveva aperto una bustina misteriosa a pendolo su un'isola di boschi di rose

Questo è un post su Umberto Eco. Non è eccessivamente lungo, ma se avete le scatole piene dei ricordi e delle sue citazioni che continuano a riempire i social, non leggetelo. Andate al bar, fumate una sigaretta, uscite con il fidanzato/marito o la fidanzata/moglie, scorrete fino allo sfinimento oculare la bacheca di Facebook, accendete il televisore, aprite un libro. Insomma fate quello che vi pare, ma non leggetelo. Cos'è, quindi? Un altro ricordo? Un omaggio? Un articolo? Non ne sono sicuro. Sono partito da un'immagine (come lui raccontò in un'intervista a proposito della genesi del suo romanzo più famoso) e ho iniziato a scrivere, senza dimenticare, però, alcuni dei suoi consigli: documentarsi, confrontare, leggere e divertirsi nel farlo, così come nell'assaporare il sottile piacere della riscrittura.

Nei primi giorni dopo la sua morte, molte sue riflessioni sono state riprese e riportate ovunque. Alcune su tutte: quella del settantenne che se legge avrà vissuto migliaia di anni; quella delle 40 regole per scrivere bene; quella sulle legioni di imbecilli che infestano i social, Twitter in particolare (su cui tornerò in chiusura). In molti casi, la prima è stata copiata e incollata da chi ha letto l'ultimo libro qualche anno fa; la seconda da chi usa allegramente punteggiatura e sintassi; la terza da chi, commentandola in maniera scivolosa, gli dà ragione. In poche parole, dopo la sua dipartita, il professore è diventato, improvvisamente, direi, uno di noi. Fino a qualche tempo fa, invece, era un anziano e distinto signore dalla erre moscia con borsalino, sigaro e bastone (vari tipi di bastone, di cui, pare, fosse orgoglioso), molto snob, molto spocchioso, molto ricco, molto famoso e molto ignorato.
 
Umberto Eco, ovviamente, non è stato solo "Il nome della rosa", anche se, invero, questo romanzo gli ha garantito una fama e una popolarità planetaria, mai venuta meno dal 1980, anno della sua pubblicazione. Egli è stato innanzitutto un uomo libero e poliedrico che è riuscito a occuparsi di svariati argomenti lasciandoci, per ognuno di essi, tracciati più o meno compiuti che è necessario studiare con attenzione se vogliamo sperare di comprendere appieno il prisma Umberto Eco. I suoi interessi hanno spaziato da Aristotele a Borges e a Joyce, da Sant'Agostino ai mass media, dallo strutturalismo all'amatissimo Gérard de Nerval, dal cabalismo ebraico ai fumetti e alla fantascienza, dalle analisi dei movimenti politici alle teorie sui complotti e ai falsi, dal terrorismo all'editoria multimediale (si veda, a questo proposito, il progetto Encyclomedia), dall'estetica medievale alla cultura di massa, dai personaggi Disney a Pierce. Il titolo di questo post, pertanto, è una modesta composizione di alcune delle sue opere per omaggiare la sua vastissima ricchezza culturale: si riconoscono "Diario minimo" e "Secondo diario minimo", "Apocalittici e integrati", "Opera aperta", "Lector in fabula", "La bustina di minerva", "La misteriosa fiamma della regina Loana", "Il pendolo di Foucault", "L'isola del giorno prima", "Sei passeggiate nei boschi narrativi" e, per finire, naturalmente, "Il nome della rosa".

I ricordi, le immagini e le innumerevoli testimonianze hanno descritto aneddoti e lati del suo carattere; si sono soffermati sui suoi contributi principalmente alle scienze della comunicazione e alla semiologia; hanno sottolineato i suoi meriti, le sue onorificenze, i premi, le milioni di copie vendute. Insomma, hanno tentato di raccontare e descrivere il personaggio, il professore, l'uomo Umberto Eco a tutto tondo. Nel mio piccolo, voglio dedicare questo pensiero a noi e cioè al ruolo importante che lui ha voluto ritagliare al lettore in tutta la sua sterminata produzione narrativa e saggistica. Va detto, a onor del vero, che approcciare un libro di Umberto Eco non è come andare dal salumiere sotto casa e ordinare un etto di prosciutto. E' necessario studiare prima, durante e dopo, poiché ogni sua opera è una porta che si apre su altre porte, è una finestra su un tempo, nostro o passato, che ci consente una posizione privilegiata per coglierne sfumature e regali nascosti. I suoi lavori sono legati l'uno all'altro da corde tese e ben strette, tanto che è necessario non perdere mai di vista dettagli e posizioni critiche per evitare di perdersi e mancare di assaporare la dottrina, la percezione, il passo, i salti, le scelte, gli alambicchi del suo genio.
 
Uno dei più grandi meriti di Umberto Eco è stato quello di portare una ventata di aria fresca nell'ammuffito, eburneo e ristretto cenacolo degli intellettuali italiani, mettendo in atto una vera e propria contaminazione tra la cultura accademica e la cultura cosiddetta di massa e ponendole, di fatto, sullo stesso piano. Già a partire dagli anni ’60, egli ha mescolato a suo piacimento ingredienti “alti” e “bassi” per osservare il risultato e superare la rigida gerarchia dei saperi come chiave per la comprensione dei meccanismi della cultura "popolare". In narrativa, si è divertito a effettuare un'operazione similare, tant'è che i suoi romanzi possono essere letti a diversi livelli di comprensione. “Il nome della rosa”, per esempio, può essere apprezzato da una portinaia come un avvincente libro giallo, mentre un accademico può scorgervi elementi di avanguardia critica. Come ha detto lo stesso Eco in un’intervista televisiva, si tratta della cosiddetta teoria del double coding, elaborata da alcuni critici americani come trend di una certa letteratura dagli anni ’80 in poi, anche se in realtà esisteva già da secoli. E per dimostrarlo ha riportato un aneddoto di Boccaccio: una mattina Dante Alighieri mentre passeggiava per le strade di Firenze sentì un fabbro citare e storpiare passi tratti dalle sue opere durante il suo duro lavoro quotidiano. A quel punto, il sommo poeta, infuriato, sparpagliò per terra gli strumenti dell'artigiano giustificando quel gesto come una vendetta di pari grado nei suoi confronti per avergli rovinato i versi. Perciò, se il fabbro declamava la Divina Commedia è probabile che fosse in grado di comprendere le immagini generali, come ad esempio quella di Caron Dimonio con occhi di bragia, anche senza cogliere le allusioni teologiche e politiche, quelle riservate a un altro tipo di lettore.
 
Il lettore dunque, o meglio, noi lettori come parte integrante delle sue riflessioni teoriche e del suo agire creativo, a cui ha suggerito di diffidare degli scrittori che affermano di scrivere solo per sé stessi, poiché, a suo dire, sono narcisisti, disonesti e mendaci: "C'è una sola cosa che scrivi per te stesso, ed è la lista della spesa. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Si scrive solo per un lettore. Infelice e disperato chi non sa rivolgersi a un lettore futuro" ("Sulla letteratura", p. 359). Ezio Mauro, nello speciale de "La Repubblica" del 21/02/2016 a lui dedicato, sintetizza al meglio la sua grande verve narrativa nella "capacità di costruirsi lettori, accendendo una passione, portandosela dietro fino a scoprire l'eresia estrema, una risata come movente di un delitto". Questo è dovuto grazie a un percorso rigorosamente controllato nella formazione del romanzo che "corrisponde perfettamente alla costruzione intellettuale di sé: dunque suona autentico, senza forzatura". Lo stesso Eco, in un'intervista concessa tempo fa al medesimo quotidiano, ha affermato che "oggi diventa popolare un libro difficile perché sta nascendo una generazione di lettori che desidera essere sfidata" e che "il libro è molto più intelligente del suo autore. Il lettore può trovare riferimenti cui l'autore non aveva pensato. Non credo di avere il diritto di impedire di trarre certe conclusioni. Ma ho il diritto di ostacolare che se ne traggano altre". Ed è a questo concetto che lui ha lavorato fin dal suo primo saggio dirompente, "Opera Aperta", del 1962, appunto dedicato a dimostrare che tutte le opere sono “aperte” a tante interpretazioni quanti sono gli interpretanti, anche se tale operazione ha, comunque, dei limiti che coincidono con i diritti del testo e della sua strategia comunicativa il cui scopo è aiutare il lettore a compiere una serie di operazioni per comprendere, in maniera fondata, il significato del testo stesso; "questo non significa che su un testo si possa fare una e una sola congettura interpretativa. In principio se ne possono fare infinite. Ma alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate" ("I limiti dell'interpretazione", p. 34). In ogni caso, un testo, per sua natura, è sempre incompleto e contiene zone d’ombra e spazi vuoti che rimangono tali se il lettore non interviene direttamente per riempirli, attingendo dalla sua enciclopedia personale, cioè dal suo bagaglio culturale e dall'esperienza che egli ha di altri testi; in estrema sintesi, il lettore riempie un'opera se inizia a "cooperare" con l’autore affinché la comunicazione testuale giunga a buon fine. Questo è il ruolo, il compito e l'onere del "Lettore modello". Dice Eco: "Il lettore modello non figura solo come qualcuno che coopera e interagisce col testo: in misura - e in un certo senso minore - nasce col testo, rappresenta il nerbo della sua strategia interpretativa. Pertanto la competenza dei Lettori Modello è determinata dal tipo di imprint genetico che il testo ha loro trasmesso...Creati col testo, imprigionati in esso, essi godono tanta libertà quanta il testo loro concede [...] In tal senso parlerò di lettore modello non solo per testi aperti a molteplici punti di vista, ma anche per quelli che prevedono un lettore testardo e obbediente; in altre parole, non esiste solo un lettore modello per il "Finnegans Wake" ma anche per l'orario ferroviario, e il testo si aspetta da ciascuno di costoro un diverso tipo di cooperazione" ("Sei passeggiate nei boschi narrativi", p. 20-21). Tra le pieghe di questo stretto e intenso rapporto tra lettore e autore, si nasconde una regola tacita, una sorta di "patto finzionale" grazie al quale il lettore, parafrasando Coleridge, si predispone a sospendere la propria incredulità, si convince che la storia raccontata è immaginaria, ma non è una menzogna, e fa finta di considerare realmente accaduto il fatto narrato e i luoghi in esso descritti. Quando ciò si realizza, la cooperazione interpretativa sale di livello e il godimento del testo è completo.

Di seguito, trascrivo un passo esemplificativo sui luoghi e sulle verità letterarie. "Questi luoghi non eccitano la nostra credulità perché, per il contratto finzionale che ci lega alle parole dell'autore, pur sapendo che non esistono, facciamo finta che siano esistiti - e partecipiamo da complici al gioco che ci viene proposto. Sappiamo benissimo che esiste un mondo reale, in cui è avvenuta la seconda guerra mondiale o gli uomini sono andati sulla luna, e che esistono poi i mondi possibili della nostra immaginazione, in cui sono esistiti Maigret e Madame Bovary. Una volta che, aderendo al contratto finzionale, abbiamo deciso di prendere sul serio un mondo possibile narrativo, dobbiamo ammettere che Biancaneve è stata risvegliata dal suo letargo da un principe Azzurro, che Maigret abita a Parigi in Boulevard Richard-Lenoir, che Harry Potter ha studiato da mago a Hogwarts, che Madame Bovary si è avvelenata. E chi affermasse che Biancaneve non si è mai più risvegliata dal suo sonno, Maigret abita in Boulevard de la Poisonnière, Harry Potter ha studiato a Cambridge e Madame Bovary è stata salvata in extermis con un contravveleno dal marito, susciterebbe il nostro dissenso (e magari verrebbe bocciato a un esame di letteratura comparata) [...] La verità della finzione romanzesca supera la credenza sulla verità o falsità dei fatti narrati [...] In questo nostro universo ricco di errori e di leggende, di dati storici e di false notizie, una cosa è assolutamente vera se lo è tanto quanto il fatto che Superman è Clark Kent. Tutto il resto può essere sempre rimesso in discussione" ("Storia delle terre e dei luoghi leggendari", p. 436-437, 440, 441).  
 
In conclusione, e per amor di verità, posto di seguito il video completo della famosa frase sulle "legioni di imbecilli" che in tanti di questi ha provocato reazioni sdegnate e saccenti (a costoro consiglio di leggere "Apocalittici e integrati" e molte delle sue bustine come utile strumento per comprendere le dinamiche degli utenti social) richiamandoli a porre attenzione a tutto il contesto del discorso, evitando generalizzazioni. E per questo è bene chiarire che Umberto Eco non è mai stato contro il web in generale, ma ci ha sempre esortati a confrontare e verificare le fonti contro la superficialità dilagante del titolo e delle prime righe, oltre a segnalarci il rischio dell'ipertrofia della memoria, come ha scritto nella sua celebre e toccante lettera al nipote. In buona sostanza, come ha ben spiegato il semiologo Paolo Fabbri nella trasmissione andata in onda il 23 febbraio scorso su RAI 5, "Eco era uomo dello humor (e non dell'ironia) e derideva le conseguenze. Il discorso degli imbecilli era la derisione delle conseguenze di Internet. Lui stava deridendo le conseguenze del fatto che tutti hanno accesso e possono dire tutto senza rispettare la gerarchie dei livelli del discorso".